Patrizia Veroli - 1999/2003
Colto e raffinato, intransigente e generoso. Ermanno Leinardi si è spento il 17 giugno 2006 dopo aver appena compiuto i 73 anni. Dal 1992 viveva e lavorava nella sua tenuta «L'invidia» a Calasetta, una piccola cittadina nell'isola di Sant'Antioco, in Sardegna. Dopo avere organizzato per alcuni anni mostre nella Torre di Calasetta, nel 2000 era riuscito, superando forti resistenze locali, ad aprire il Museo Civico d' Arte Contemporanea, che aveva dedicato, pressoché esclusivamente, all'arte concreta, lo stile che era il suo. In quell'edificio bianco e slanciato con grandi vetrate che guardano il mare, restaurato grazie a fondi europei, aveva esposto gran parte della sua collezione privata, ora non si sa che fine farà. Si sono spenti così non solo gli occhi che per decenni sono stati capaci di renderci l'asprezza del mondo trasformata in rigoroso pensiero grafico e delicata poesia, ma un faro di arte internazionale in un'isola, ed in un'Italia in cui restano poche le istituzioni artistiche non guastate dalle logiche degli accaparramenti partitici o dagli egoismi padronali. Sprezzante di tutte le ragioni che non fossero puramente artistiche e culturali, Leinardi non ha avuto rapporti facili con i politici: e questo aveva condannato il destino del suo museo. Gli incontri più proficui li aveva con la sua arte, nel silenzio e negli spazi quieti del suo grande studio illuminato in cui tutto respirava razionalità ed eleganza. Affascinata dal contrasto tra la sua solitudine e la ricchezza di frequentazioni umane ed intellettuali che si percepiva nel suo eloquio franco e deciso, gli feci alcuni anni fa un'intervista pubblicata sul trimestrale d'arte contemporanea Terzoocchio n. 3 del settembre 2006, di cui si offrono qui alcuni estratti.
- domanda
- La dimensione in cui vivi qui, in questa estrema propaggine della Sardegna non ancora rovinata dal turismo, può sembrare paradisiaca. La luce, i colori, gli spazi, tutto si offre con una purezza quasi primitiva. La tua vita qui non è anche una scelta di separatezza, un rifugio?
- risposta
- No. Sono stato bene in giro per il mondo, ho fatto grandi esperienze, ma sono stato sempre angosciato dalla dicotomia tra cultura e pratica artistica, tra l'uomo assetato di cultura, l'intellettuale che pure è in me, e l'artista che vuole esclusivamente dedicarsi al suo mestiere. Arrivato verso i cinquant'anni, ho cominciato a pensare che le grandi città, Roma, Milano e Parigi nelle quali avevo vissuto, non mi erano più necessarie. Negli anni '50 e '60 c'era stato un grosso fermento in Italia, me lo sentivo attorno, me ne sono nutrito assieme a persone che lo vivevano come e più di me. Poi i tempi sono cambiati.
- domanda
- Anche in Sardegna?
- risposta
- No, qui non è cambiato nulla. Questa terra non cambia. I sardi sono molto ritrosi verso le novità, non esiste un mercato d'arte, non esistono vere gallerie. Ci sono oggi alcuni musei che funzionano da pochi anni appena e che si scontrano con la diffidenza dei politici.
- domanda
- Se oggi è difficile fare cultura qui, che accadde alla fine degli anni Cinquanta, quando hai cominciato l'attività espositiva? Quale reazione vi fu?
- risposta
- Successe un pandemonio. All'epoca non si capiva la differenza tra il folclore e l'arte, e i pittori di qui erano folcloristici. Era lo stesso ambiente che esisteva in Toscana alla fine dell'Ottocento quando cominciarono a esporre i Macchiaioli. Gli artisti erano arroccati sui nuraghi. E anche quelli che hanno viaggiato hanno teso a salvaguardare questa loro prerogativa di insularità: è il caso di Giuseppe Biasi a Biella o di Palazzi sulla Costa Azzurra, che hanno continuato a dipingere come se stessero in Sardegna. La vera ricerca sul linguaggio della pittura è iniziata alla fine degli anni '50, quando ci siamo ribellati ed abbiamo tentato di rompere l'isolamento.
- domanda
- Tu sei «nato» figurativo, comunque.
- risposta
- Si, fauve, perché ero innamorato di Matisse, che avevo visto in cartolina. Ero, diciamo, espressionista.
Il salto verso l'astrattismo lo feci dopo la Biennale di Venezia del 1960. Mi sconvolse Fautrier, di cui vidi 6 disegni a penna che mi hanno aperto un mondo che non conoscevo. Erano figurativi, ma il valore del segno prescindeva dalla figura. Ricordo forme femminili appena accennate che cantavano sul bianco del foglio.
Tornai in Sardegna in piena crisi. Misi una tela bianca sul cavalletto e rimasi un anno così. Niente, non succedeva niente.
Qualsiasi cosa accennassi era figurativa, ed io mi ero proposto di andare oltre. Poi cominciai a tessere segni a matita sopra la tela e dopo a ripeterli un po' col colore. Il risultato era un po' alla Mirò, però erano ancora figurativi, anche se a me sembrava di aver fatto qualcosa di molto moderno. Poi nel '61 a Cagliari tenni la mia prima personale. La crisi continuava, però. - domanda
- La «0» non c'era ancora?
- risposta
- No, c'erano dei puntini. Questi tentativi sono andati avanti fino al '62 o al '63, quando lavoravo in uno studio al Castello, la parte alta di Cagliari. Non potevo più stare in casa, coi quattro bambini. Mi presi una piccola stanza e lì incominciai a cercare la materia: facevo tondi a monotipo ad olio con colore molto diluito e poi imprimevo con carta assorbente.
Volevo il mio segno, ma andavo a tentoni. Volevo creare un mondo nuovo. Al giorno d'oggi questo è molto raro, perché i giovani hanno una grande confusione in testa. I critici raccontano tante bugie e loro ci credono, si fanno prendere per mano. Molta gente potrebbe cambiare mestiere, non dipingere affatto. Non hanno niente da dire, assomigliano un po' ad uno e un po' all'altro. Non è serio, non è morale, non è giusto.
Io ho conosciuto Capogrossi, ma non sono andato verso di lui, ma verso la terza dimensione.
A Parigi la mia ricerca è definita «collaterale», perché non sono un costruttivista puro. Io vìolo il piano e creo spazio.
E questo non segue le regole di Van Doesburg, di Mondrian o di Max Bill.
Parigi mi avrebbe aiutato: trovai uno studio di fronte alla Gare de Lyon, una specie di tana di cui Jean Leppien diceva: «c'est un atelier pour un musicien aveugle».
Aveva solo una piccola finestrella sul soffitto e dovevo lavorare con la luce artificiate. I miei «Spazi ambigui» sarebbero nati li.
C'è una pertinenza tra il luogo in cui si sta e quello che vi si fa.
Nel '64 dunque facevo tondi monotipati.
Però il tondo non si muoveva da un punto di vista dinamico. Allora l' ho tagliato al centro, ho tolto la parte interna e ho creato una relazione con l'esterno. E il tondo ha cominciato a vibrare. Il mio segno non è nato da un ready made, dall'aver preso una lettera dell'alfabeto, o dalla geometria. Nel '67 feci il primo quadro con l'ellisse. - domanda
- L’anno prima ci fu il Manifesto Transazionale.
- risposta
- Si, con Tonino Casula, Ugo Ugo e Italo Utzeri. Ci presentò Maltese a Cagliari, e poi l'anno dopo al Girasole, la Galleria romana di Via Margutta. Ci volevamo staccare dai gestaltici, che facevano l'optical, che seguivano regole aritmetiche o matematiche. Il manufatto perdeva umanità, diventava algido. Come ha mostrato la mostra che Di Genova ha fatto all’Acquario romano di recente (2), il costruttivismo italiano pecca sempre di senso del design: era tutta gente che per vivere faceva stoffe o altri oggetti, e anche nel migliore dei casi questo si sente. A Parigi mi sono reso conto che questa geometria non aveva bisogno di dimostrare niente. Il Gruppo Transazionate l'abbiamo presentato in varie città, ma non ha avuto fortuna, come accade in Italia alle cose intelligenti.
- domanda
- Nel 1967 incontrasti Argan.
- risposta
- Solidarizzammo. L'anno dopo lasciai la Sardegna per Roma. L'atmosfera artistica era molto interessante: c'erano ancora dei retaggi informali ma si sentiva il bisogno di andare avanti. C'era il «Gruppo Uno», Biggi, Carrino, Pace, Uncini, Santoro. Conobbi Dorazio, Perilli, Michelangelo Conte, il gruppo dei pittori geometrici, Bice Lazzari, Lia Drei, Giovanni e Pia Pizzo, Lucia Di Luciano. Nel '69 conobbi Michel Seuphor; e l'anno dopo feci una personale a Parigi al Centro Co.Mo. (Constructivisme Mouvement).
- domanda
- E quindi presto hai cominciato a sentirti stimolato più dall'ambiente parigino che da quello romano.
- risposta
- Molto di più. Erano ancora vivi Gorin, Poliakoff, Seuphor, Nemours, Leppien, tutta gente che aveva diversi anni più di me.
- domanda
- Perché hai sentito più vicino il gruppo storico francese che quello italiano? Cosa avvertivi nell'esperienza italiana?
- risposta
- Non sentivo lo squillo della purezza, della ricerca fine a se stessa. Del resto il suprematismo è passato da Parigi, non da Roma.
- domanda
- E gli astrattisti italiani degli anni '30?
- risposta
- Li avevo conosciuti, ma non mi avevano fatto impazzire. Mi piaceva in parte Soldati, ma non avevo grande stima degli altri. Melotti lo conobbi negli anni '80.
Avevo un contratto di esclusività mondiale con una grande galleria di Zurigo che aveva scelto Melotti e me, io come artista giovane e lui come anziano.
Nel 1982 facemmo li una mostra di acquarelli in quattro: Melotti, André Evrard, Peter Stein ed io. - domanda
- È certo che durante il fascismo l'Italia aveva vissuto un' atmosfera un po' asfittica.
- risposta
- Abbiamo avuto una classe politica dirigente di ignoranti. I fascisti lo erano, e tanto. Poi con i democristiani è stato persino peggio. Quanto ai comunisti, coloro che seguivano i dettami del realismo socialista erano di un 'arretratezza spaventosa. In Francia c' era un Edouard Pignon, ma era condizionato da una schiera di grandi artisti, come Gorin, Bissier, Manessier e tanti altri. Invece in Italia Guttuso, ben sistemato all'interno del PCI, spadroneggiava.
Certo, tra PCI e conservatorismo cattolico, le cose non erano facili per noi astrattisti. - domanda
- E la critica romana?
- risposta
- Ho avuto ottimi rapporti con Rosario Assunto, Argan, Di Genova, Sandra Orienti, Lorenza Trucchi, Montana, Cesare Vivaldi e a Firenze con Lara Vinca Masini. Diversi di loro mi hanno fatto anche vendere dei quadri, mi hanno aiutato. La mia era una pittura che mancava, a Roma, era uno stile che sfidava la regola dell'ortogonalità. Era la strada che era stata preclusa da Mondrian e dai mondrianei, che accusavano la curva di essere femminile. Non ho mai avuto crisi di ordine creativo, solo crisi di ordine spicciolo, perchè qualche volta dovevo tirare la cinghia per andare avanti.
- domanda
- A Roma hai trovato compagni di strada?
- risposta
- Sì, ad esempio Vincenzo Arena, col quale abbiamo da sempre un buon sodalizio, Lucia di Luciano, Bice Lazzari, con cui pure ho avuto un ottimo rapporto, Antonino Virduzzo. Ero inserito bene, ho fatto tante mostre, diverse gallerie si sono interessate al mio lavoro, come la Galleria della Trinità, a via Gregoriana, che era diretta dalla figlia del pittore Carlo Quaglia. Poi venne la grande gallerista parigina Denise René, e mi comprò due quadri. Per oltre dieci anni fui rappresentato dalla Galleria «Il Segno» di Angelica Savinio, in via Capolecase.
- domanda
- E come mai nel 1975 poi ti spostasti a Milano?
- risposta
- L'anno prima Calderara, che mi voleva molto bene, mi aveva organizzato una mostra di acquarelli allo Studio« V» di Vigevano, una piccola galleria autogestita da pittori, nella splendida piazza disegnata da Leonardo. Mi presentarono Ezia Gavazza e Giuseppe Franzoso. A Milano ho conosciuto artisti molto interessanti, come Arturo Vermi, Angelo Verga, Ettore Soldini, la Dadamaino. Il clima però era terribile ed alla fine dell'anno me ne sono ritornato a Roma, frequentando sempre di più Parigi, una città stupenda, dove un pittore si sente a casa sua, si sente parigino, anche senza una lira in tasca. Lì si vive dentro le gallerie, la città ne è piena. Ci sono artisti di ogni tipo, mostre formidabili.
- domanda
- Gli anni '70 non erano da noi anni facili.
- risposta
- No, ma Argan ci difendeva molto, ed era un'autorità indiscussa. Il problema era il mercato. Gallerie di tendenza costruttivista a Roma ce n'erano una o due soltanto ed era difficile vendere. Quando esposi alla X Quadriennale, Palma Bucarelli, che era entusiasta del mio lavoro mi comprò un quadro di tre metri, che adesso è proprietà della GNAM. Vendevo bene a Genova, qualcosa a Milano, ma il mio mercato l'ho trovato soprattutto in Svizzera, in Germania e a Parigi.
- domanda
- Per quali tecniche sei passato?
- risposta
- All'inizio ho lavorato ad olio, poi molto a tempera. Infine sono passato all'acrilico.
- domanda
- L’olio lo fai ancora?
- risposta
- Sì. Il colore dell'olio è inamovibile, permette di velare molto. L'acrilico va bene per fare cose concettuali, brevi. Vibra meno, ma dà risultati meravigliosi dal punto di vista progettuale. Dopo pochi minuti si riesce a controllare il risultato. Il colore si ossida un poco, asciugandosi, ma poi non si altera più. Ho quadri in acrilico che in trent'anni non si sono mossi. Uso i Liquitec, che per me sono i prodotti migliori.
- domanda
- Gli acquarelli li hai cominciati subito?
- risposta
- Da ragazzo, poi smisi, allora si pensava che fosse una tecnica minore. Nel ’74 me ne regalarono una scatola e ricominciai, prima quasi per gioco. Poi pian piano mi sono impadronito della tecnica, che è molto difficile.
- domanda
- La preferisci all'olio?
- risposta
- No. Ciò che realizzo in acquarello non posso farlo ad olio.
Col tiralinee si può lavorare solo con l’acrilico, coi colori ad acqua, le tempere.
Uso l’olio nelle grandi dimensioni e l’acquarello per i lavori fini ad un metro, un metro e mezzo. Non è tanto determinante il formato, quanto il discorso che voglio fare. L’acquarello è intimista, è come scrivere una lettere, è un soliloquio. Il colore ad olio crea una dimensione celebrativa, racconta: è la grande tradizione cinque-seicentesca italiana che ritorna, anche con la geometria.
Ho realizzato decorazioni murali di oltre cinquanta metri quadrati per una scuola media di Calasetta. - domanda
- Da dove inizi a lavorare? Da dove parte l'idea?
- risposta
- Da un disegno che, per quanto riguarda l’acrilico è sempre in scala uno a uno.
- domanda
- Scarti molto?
- risposta
- Si, nel senso che prima di andare slla tela impiego giorni e giorni. Il progetto parte a matita, il colore non c’entra. Non è come con l’acquarello o con l’olio. Il colore qui diventa un mezzo per staccare una parte dall’altra, per farla venire avanti o per spingerla indietro. L’accoppiamento è di due, tre, quattro colori al massimo. Posso anche combinarli, quello che conta è raggiungere una vitalità interna. La mia è una “scena breve” come scrisse Sandra Orienti.
Se tu metti al posto di quel rosa, quel verde, e al posto di quel verde metti il rosso, il quadro funziona lo stesso. È tutto talmente calcolato che il colore è come una materia che si muove. - domanda
- Una volta mi hai detto che non ti è mai interessato il teatro. Questo perché nei tuoi quadri c’è già una componente teatrale, una narratività astratta.
- risposta
- Sono eventi astratti che posso muovere come voglio. Mi sono scelto un 40x40, poi la parte interna è 20x20, esattamente la metà: con quello lavoro. Capisco molto bene Morandi, che aveva 4 o 5 bottiglie e muoveva sempre quelle.
- domanda
- Ti è più vicino Mondrian.
- risposta
- Si, come comportamento, ma lo è più di tutti Malevitch, il quale creava accadimenti: un piano, un quadrato, una croce. La ruoti di pochi gradi e acquisti una profondità enorme.
- domanda
- Oggi il tuo non è un isolamento, dunque.
- risposta
- Non potrei proprio dirlo. Prima, grazie alle mostre che organizzavo alla Torre Civica di Calasetta, ed ora col Civico Museo d’Arte Contemporanea, sono in contatto con tutti. Gli artisti vengono volentieri a trovarmi, fanno la loro mostra, lavoriamo assieme a serigrafie o pubblicazioni.
- domanda
- Come vedi il tuo futuro a Calasetta?
- risposta
- È sperabile che un 'istituzione viva, attiva, provochi un risveglio. Si sa che uno dei problemi più importanti è l’educazione. In Sardegna ci sono tre accademie e non ne funziona neanche una. Del resto non funzionano da nessuna parte. In italia non esiste un posto dove tu mandi tuo figlio, tuo fratello o un giovane a diventare pittore. Pittore è una parola che per molti non si deve usare più. Invece di disegnare le bottiglie le prendono e le mettono lì. E non è la stessa cosa. Io sono molto critico, da un certo punto di vista sono un pittore impegnato nell’avanguardia, però dal punto di vista del mestiere sono molto tradizionalista.
Calasetta-Roma, 1999-2003
Patrizia Veroli, biografia dal sito - Associazione Italiana per la Ricerca sulla Danza
Nata ad Avezzano (AQ) nel 1947. Laureata in Scienze Politiche all'Università La Sapienza di Roma nel 1971. È storica della danza free lance.
Un volume sul balletto romantico da lei scritto assieme a Madison Sowell, Debra Sowell e Francesca Falcone è in corso di pubblicazione presso la casa editrice L’Epos. Sempre per L’Epos uscirà nel 2007 una ristampa de L’arte della danza di Isadora Duncan, a curatela congiunta con Barbara Nomellini. continua